Il Sapere Scientifico, la Critica Illuministica e i Morti Viventi. Linguaggio Macchina intervista Maria Chiara Pievatolo.

Accesso aperto, proprietà intellettuale, bibliometria, copyright. Sono alcune delle parole chiave del brillante intervento di Maria Chiara Pievatolo alla conferenza Accesso aperto e comunicazione scientifica: storia, pratiche e principi, organizzata il 29 Giugno all'Istituto Europeo di Design di Cagliari dall'ente regionale Sardegna Ricerche nell'ambito del programma INNOVA.RE (POR Sardegna 2007-2013).
Maria Chiara Pievatolo insegna filosofia politica all'Università di Pisa, cura il Bollettino telematico di filosofia politica, fa parte della commissione della Conferenza dei Rettori delle Università italiane per la pubblicazione ad accesso aperto e del gruppo di ricerca di Hyperjournal.
Ho conosciuto Maria Chiara Pievatolo nel 2008 in occasione del Master in comunicazione della scienza che ho contribuito a organizzare come CRS4 (insieme all'Ordine dei Giornalisti, all'INAF e all'Università di Cagliari). Già da allora ho avuto modo di apprezzare la sua capacità di centrare il cuore dei problemi e di proporre soluzioni concrete senza giri di parole, ma con le opportune suggestioni. è stato così anche a Cagliari il 29 Giugno. Qui di seguito Maria Chiara risponde alle mie domande.

Maria Chiara, chi sono i morti viventi oggi?
«Stiamo vivendo una terza rivoluzione mediatica, che crea sia opportunità sia rischi. Possiamo estendere l'uso pubblico della ragione, rendendo la discussione scientifica e culturale più accessibile; ma rischiamo anche di affidare acriticamente la nostra ricerca e le nostre interazioni sociali a nuovi mediatori – quali Facebook, Google o Apple – i cui interessi non sono necessariamente in armonia con quelli di ciascuno di noi. I morti viventi sono coloro che – nel mondo politico, accademico ed editoriale – temono il mutamento o non sanno affrontarlo. Sono i professori che continuano a pubblicare ad accesso riservato e a considerare come “pubblicazioni” solo i testi privatizzati da qualche editore, come se vivessero ancora nel mondo della stampa; sono gli editori che continuano a contare sul copyright come se riprodurre i testi fosse ancora difficile e costoso; sono i politici che vedono la rete soltanto come un pericolo.
Nel mondo accademico, in particolare, continuare a pubblicare ad accesso chiuso quando le ragioni tecnologiche ed economiche che lo giustificavano nell'età della stampa sono venute meno significa condannare se stessi all'irrilevanza. La conversazione colta si sta spostando in rete: qualcuno, nel medio termine, potrebbe cominciare a pensare che si può fare senza di noi. Nel breve termine, soprattutto nell'università italiana, la persistenza della tradizione rischia di trasformarci in veri e propri zombies, che – lungi dal star tranquilli nelle loro tombe – minacciano anche i vivi. In questo momento la sperimentazione nel campo della pubblicazione scientifica, della revisione paritaria e della valutazione della ricerca sarebbe indispensabile: bloccarla per apatia, tradizionalismo, o per amore delle proprie minuscole posizioni di potere, rischia di danneggiare seriamente il nostro futuro. Kathleen Fitzpatrick ha scritto un bellissimo libro su questo tema: ho cercato di renderlo immediatamente fruibile al lettore italiano a partire da qui: http://bfp.sp.unipi.it/btfp/?p=1033».

Hai scritto note molto critiche sulla valutazione della ricerca. Quali sono le tue posizioni?
«Anche in questo caso abbiamo a che fare con dei morti viventi. Mentre il mondo sta mettendo in discussione il sistema oligopolistico dell'editoria scientifica e la pretesa che si possa valutare la ricerca considerando solo la collocazione editoriale dei testi e la bibliometria, un'autorità di diretta nomina governativa sta cercando d'imporci, fuori tempo massimo, un modello fallito. La ricerca nazionale verrà valutata su database parziali e proprietari come Wos (ex ISI) e Scopus, che appartiene a Elsevier, o – per le scienze umane - su liste di riviste d'eccellenza compilate arbitrariamente e soggette a molte contestazioni. Nell'ambito delle scienze matematiche, mediche e fisiche l'effetto oligopolistico creato dai core journals – la cosiddetta crisi dei prezzi dei periodici- è ormai molto noto: nell'aprile 2012 la stessa biblioteca di Harvard ha invitato i suoi docenti a passare all'accesso aperto. Poco prima dopo uno sciopero dei ricercatori nei confronti di Elsevier, che l'Economist ha chiamato academic spring, ha portato al ritiro del Research Works Act, un disegno di legge presentato al Congresso americano allo scopo di proibire le politiche di mandato per l'accesso aperto. Perché rinchiuderci proprio ora in questa gabbia – in un momento in cui la rivoluzione mediatica rende indispensabile la sperimentazione sulla pubblicazione e sulla comunicazione scientifica in generale?
Ma la cosa che disturba di più è che, mentre l'Anvur non si preoccupa degli effetti oligarchici e oligopolistici delle sue gerarchie – effetti che gravano e graveranno sui bilanci delle università – la ricerca sta subendo tagli drastici in termini di personale (si veda per esempio Il triste destino dei precari della ricerca nell’università italiana). Detto in modo meno burocratico, il combinato disposto di questa politica e di una valutazione della ricerca volta a conservare e creare oligarchie conduce ad ammazzare i ricercatori per ingrassare gli editori.
Mi sembra una scelta non solo politicamente discutibile, ma anche economicamente irrazionale».

Cosa intendi per critica illuministica alla proprietà intellettuale?
«Esiste una vulgata che connette la nascita della cosiddetta proprietà intellettuale all'invenzione della stampa. In realtà, non solo l'espressione “proprietà” è impropria - il suo stesso carattere temporaneo indica che è un monopolio concesso dallo stato - ma, soprattutto, la sua vicenda è tutt'altro che una marcia trionfale. L'antenato del copyright, il privilegio, non tutelava gli autori, ma conferiva alle corporazioni degli stampatori il monopolio sull'attività della stampa in cambio del riconoscimento del potere statale di censura.
Solo nel XVIIII secolo, l'autore entra in gioco, in Inghilterra con il copyright (Statute of Anne, 1710) e sul continente con il droit d'auteur (leggi Le Chapelier, 1791, e Lakanal, 1793). Il XVIII secolo è anche il periodo in cui nasce un mercato librario esteso oltre i lettori professionali, all'opinione pubblica colta – è il periodo dell'Illuminismo, delle rivoluzioni, e anche delle ristampe non autorizzate, ma legali. Sul continente, infatti, il regime del privilegio, territoriale, le rendeva molto facili, specialmente in aree – come quella tedesca – linguisticamente unite ma politicamente frammentate.
Il problema della diffusione del sapere era centrale per gli illuministi europei: per questo pensatori importanti come Diderot, Condorcet, Lessing, Kant e Fichte parteciparono al dibattito sulla stampa e sulle sue regole. In questa discussione vennero in luce idee come la natura comunitaria della cultura (Condorcet), la libertà delle opere derivate (Kant), il diritto dell'autore di controllare il modo in cui parla al pubblico e la funzione solo ausiliaria dell'editore (Kant), la necessità della diffusione dei testi come condizione della loro valorizzazione, perfino in un regime di proprietà, e progetti di stampa su sottoscrizione, che oggi si chiamerebbero crowdfunding (Lessing). In altre parole, in un'epoca in cui la stampa era il medium più potente e più rivoluzionario, gli illuministi sapevano benissimo che il suo dispositivo e i suoi monopoli erano soltanto strumenti, contingenti, al servizio della libertà della cultura. Anche per questo, i fautori del monopolio perpetuo furono sconfitti.
Chi volesse saperne di più può leggere on-line sia il saggio sulla ristampa di Kant, qui, http://bfp.sp.unipi.it/dida/kant_7/ar01s06.html, seguito dalla mia annotazione, sia l'attualissimo progetto di Lessing: Vivere e lasciar vivere. Un progetto per scrittori e librai. Lessing era un teorico della proprietà intellettuale, ma era anche consapevole dei suoi limiti: non posso recintare un libro come recinterei un frutteto, senza fargli perdere il suo valore, che deriva dalla pubblicità. Lessing voleva rendere l'autore economicamente indipendente, per farlo vivere del proprio lavoro e non di mecenatismo, e lo voleva fare per in un ambiente favorevole alla copia: la sua soluzione dunque, a dispetto delle sue posizioni teoriche, era in realtà molto simile al nostro crowdfunding. La sua idea nel mondo della stampa non vide mai la luce, a causa dei suoi limiti tecnologici ed economici. Oggi, invece, ci sono sperimentazioni molto interessanti, come per esempio questa: produzionidalbasso.com».

I Rettori italiani cosa pensano, generalmente, dell'open access? Nel 2004 «la Crui ha promosso una dichiarazione di Messina, a partire dalla quale buona parte delle università italiane ha aderito alla dichiarazione di Berlino, del 2003, che impegna a favorire l'accesso aperto creando archivi aperti istituzionali. Nel 2006 è stata creata una commissione open access che ha stilato delle linee guida, liberamente adottabili dalle università. Per il momento, l'unica che ha avuto una larga attuazione è quella sul deposito legale delle tesi di dottorato in archivi aperti. Si potrebbe fare di più? Certamente: basta dare un'occhiata a questa conferenza di Lessig: Lawrence Lessig, The architecture of access to scientific knowledge: just how badly we have messed this up. Occorrerebbe, però, una maggior consapevolezza della politica e dell'opinione pubblica: le linee guida sono semplici consigli e da sole non possono essere strumenti di pressione».
Andrea Mameli 3 Luglio 2012 www.linguaggiomacchina.it

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